lunedì 11 dicembre 2023

 

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I MARMORARI AMATO A MILAZZO.

LA FONTANA DEL MELA E PALAZZO PROTO

di Franco Chillemi

 

1. I MARMORARI DI MESSINA

Messina ha vissuto una grande stagione di rinnovamento urbanistico e architettonico a partire dagli inizi del Cinquecento. La costruzione della nuova cinta murata e di alcune grandi fortezze dopo l’ingresso trionfale di Carlo V nel 1535 diede inizio ad un processo di rinnovamento che si estese all’intera Città e provocò la formazione di importanti borghi fuori le mura. Nei primi decenni del Seicento la Palazzata diede un originale affaccio all’abitato sul mare mentre al suo interno proseguiva il rinnovamento tra rettifiche viarie, nuovi conventi e pubblici edifici. Successivamente l’attività edilizia continuò a ritmo sostenuto fino alla grande crisi economica e istituzionale che portò alla rivoluzione contro la Spagna ed alle sue nefaste conseguenze e riprese, in qualche misura, grazie al cantiere della Cittadella e ai danni del sisma del 1693. Tuttavia molte famiglie operative nel settore edilizio spostarono le loro attività nel Val di Noto e il disastroso terremoto del 1693 accentuò questa tendenza. Nel corso del Settecento l’edilizia ebbe una modesta ripresa e venne favorita dal terremoto del 1783 che devastò Messina. In un contesto tanto dinamico le categorie dei muratori, dei marmorari, dei tagliapietre e degli scalpellini, già sicuramente prospere nel Medioevo, dovettero conoscere un grande sviluppo. Nel 1559 questi lavoratori sottoscrissero i capitoli destinati a regolarne l’attività, che furono approvati dall’autorità cittadina[1]. La nuova maestranza aveva la sua sede presso la chiesa greca di S. Eustazio o della Madonna della Grazia. Mancano tuttavia notizie sull’attività della corporazione.

Agli inizi del Seicento Giuseppe Buonfiglio e Costanzo attesta l’esistenza di un oratorio della Madonna dell’Itria dei “tagliapietre” e dei “fabricatori”[2].

Placido Samperi, a metà Seicento, aggiunge[3] che ai tempi del vicerè Marcantonio Colonna (1577-1585) si era costituita, presso la chiesa greca della Madonna dell’Itria, la confraternita dei Fabbricatori. La testimonianza sembra attestare lo scarso successo dell’iniziativa del 1559 ma potrebbe anche riferirsi alla fondazione della confraternita, a carattere religioso e assistenziale, qualche tempo dopo la costituzione della maestranza che disciplinava il lavoro delle categorie operose nell’attività edilizia. Il cambiamento della chiesa potrebbe essere stato dovuto alle circostanze più diverse e non dimostra il fallimento dell’iniziativa del 1559.

Le testimonianze successive sono rare. Il Gallo[4] riferisce, nel 1755, che la confraternita esisteva presso la chiesa di S. Maria dell’Itria: la festa della titolare era celebrata con una importante processione accompagnata dalle corse dei cavalli e da una fiera. La confraternita continuò ad operare nel corso dell’Ottocento e fino al terremoto del 1908 che ne distrusse la sede.

I nomi degli artigiani che esercitarono le attività di marmorari, scalpellini, tagliapietre e muratori sono stati dimenticati insieme alle notizie sulle loro attività. La letteratura storica ed artistica se ne è completamente disinteressata: soltanto di recente le ricerche d’archivio hanno permesso di ricostruire le vicende della categoria dei marmorari che nel Seicento e nel Settecento ha fattivamente contribuito  alle più importanti realizzazioni monumentali della Città[5].

L’attività era organizzata e gestita da botteghe a carattere familiare che passavano di padre in figlio: i documenti dimostrano che i mastri disponevano spesso di compagini familiari numerose e intrecciavano rapporti matrimoniali destinati ad ampliarle e rafforzarle. I marmorari, comunque, collaboravano tra loro anche a prescindere dalle parentele: realizzavano lavori in comune unendo le loro forze per gli incarichi più impegnativi o prestavano almeno garanzia per i colleghi. L’attività aveva carattere esecutivo rispetto ai progetti di architetti e pittori: molti documenti conservano i nomi dei progettisti o almeno menzionano l’esistenza dei disegni forniti dai committenti. L’originalità ed il valore dell’opera prestata dai marmorari possono dunque essere valutati soltanto nella fase dell’esecuzione ma l’uso di lavorare in bottega (e collaborando agli incarichi dei colleghi) e la perdita di gran parte dei disegni progettuali e delle stesse opere rendono assai ardua ogni valutazione.

I contratti dimostrano che i marmorari realizzavano ogni tipo di lavorazione che richiedesse l’uso di pietre e marmi, da semplici scalinate e pavimenti fino a complesse decorazioni in chiese, fontane e palazzi nobiliari. A volte si trattava di commissioni veramente modeste: i maestri più affermati le accettavano perché la continuità delle botteghe esigeva che si eseguisse qualunque lavoro. Ovviamente la ripartizione interna dei compiti teneva conto delle diverse abilità e preparazione dei lavoratori.

I materiali usati erano i più diversi e cambiarono secondo i momenti storici: Messina non disponeva di cave di materiale lapideo di pregio e nel Cinquecento importava marmi costosi, specie da Carrara, per le opere di maggior valore. Nel Seicento furono acquistati anche marmi rari e pietre dure (come il diaspro siciliano) per gli intarsi, diventati di gran moda. Successivamente si fece ricorso largamente al più economico marmo mischio di Taormina e ad altre pietre locali. Tuttavia le importazioni da centri lontani, specie Genova, non cessarono mai.

Il porto aveva un ruolo centrale nell’attività dei marmorari per l’arrivo e la spedizione dei materiali. Non sappiamo se i marmorari vivessero e lavorassero in uno specifico rione, come altre categorie, ovvero operassero sparsi nella città. Soltanto per l’Ottocento sappiamo che gli Amato tenevano bottega alla marina.

I documenti tramandano i nomi di molte famiglie di marmorari: tra queste i Blandamonte ed i Bara riuscirono a tramandare per più generazioni la loro attività. La famiglia che ebbe maggiore continuità, almeno da metà Seicento fin dopo l’unità d’Italia, fu quella degli Amato. Nella seconda metà del Seicento Francesco Amato ed il figlio Giovanni Maria erano già impegnati in commissioni importanti. Antonino Amato, figlio di Giovanni Maria, ebbe una vasta produzione e da semplice marmoraro diventò scultore ed architetto: la sua attività è largamente documentata nella ricostruzione di Catania dopo il terremoto del 1693[6] ma egli fu presente anche a Messina (come scultore) e in Calabria[7].



Un maestro «Antonio Amato del fu Giovanni» tra gli appaltatori dell'intervento di manutenzione del 1808/09, progettato da Antonio Tardì, del Palazzo Proto di Milazzo (Archivio Storico "Bartolo Cannistrà" del Museo Etnoantropologico e Naturalistico "Domenico Ryolo" di Milazzo, fondo marchesi Proto).


I figli di Antonino ne continuarono l’attività: Andrea e Tommaso lavorarono a lungo a Catania proseguendo i cantieri del padre mentre Giacomo, Carmelo, Giovanni Maria, Francesco e Domenico svolsero la loro attività a Messina, senza trascurare le commissioni in Calabria. Giovanni Maria si assicurò i lavori per la Fontana del Mela a Milazzo. Giacomo sottoscrisse il contratto per la facciata di Palazzo Proto nella Città del Capo: la documentazione del Fondo Archivistico Marchesi Proto, messa a disposizione dagli eredi Proto nell’archivio storico e biblioteca “Bartolo Cannistrà” presso il Museo Etnoantropologico e Naturalistico “Domenico Ryolo” di Milazzo consente di far luce su quest’ultima importante commissione finora ignota.

Non è stato ancora possibile ricostruire un completo albero genealogico della famiglia e le omonimie rendono ancora più difficile distinguere le attività dei diversi mastri: Antonino Amato ebbe discendenti che portavano il suo nome e, a volte, si incontrano negli atti notarili esponenti della bottega che non è possibile identificare compiutamente. Rimangono, altresì, ignote le circostanze che portarono alla fine della bottega degli Amato dopo il 1865.

 

2. LE PRIME NOTIZIE SULLA FAMIGLIA AMATO

Nel 1650 Francesco Amato, fu Leonardo, si impegnò col sacerdote Jacopo Ferrara della Congregazione della Madonna della Lettera a realizzare una porta in pietra di Taormina nella sede della confraternita dal lato della sacrestia, uguale alla porta giù realizzata “di la parte di li calabrisi”[8]. L’incarico si riferiva all’edificio della Cattedrale, dove la congregazione aveva sede nella cripta fin dalla sua fondazione nel 1638. La contrada dei Calabresi era nei pressi del Duomo, dal lato di via S. Giacomo, ma non sappiamo chi avesse realizzato l’ingresso che vi si apriva. La porta dal lato della sacrestia era dalla parte  opposta, dove ancora si trova la sacrestia del Duomo. Le due porte probabilmente si aprivano ai lati della cripta (rendendola indipendente dall’edificio soprastante) e forse corrispondevano a quelle che ancora si vedono nell’edificio ricostruito, rifatte in stile neogotico.

Nel 1660 Francesco Amato, dopo aver emancipato il figlio Giovanni Maria, firmò con costui e con gli scalpellini Giovanni Spina e Filippo Morello un’obbligazione per dieci onze a favore di Carlo de Gregori, deputato della fabbrica del senato. Il contratto si riferiva ad un acconto per lavori da eseguire nel Palazzo Senatorio. Infatti poco dopo Francesco ed il figlio Giovanni Maria dichiaravano di aver ricevuto la somma di 12 onze a saldo delle 22 dovute loro per la pietra fornita ed il lavoro di scalpellino che avevano espletato[9]. Il Palazzo Senatorio sorgeva di fronte al Duomo e sarebbe stato demolito al termine della rivolta antispagnola.

Nel 1672 Giovanni Maria Amato dichiarò di aver ricevuto la somma di 9 onze da un certo Giuseppe Longhe per il tramite del marmoraro Vincenzo Bosco: non conosciamo la causale del pagamento ma con ogni probabilità si riferiva ad un lavoro come marmoraro[10].

Nel 1685 Giovanni Maria Amato lavorò col figlio Antonino ai pilastri in marmo, decorati a commesso, del baldacchino dell’Altare Maggiore del Duomo[11]: si trattava della grandiosa realizzazione progettata dal pittore Giovambattista Quagliata[12].

Francesco e Giovanni Maria Amato lavorarono insieme anche nella Chiesa di S. Antonio Abate di Castiglione di Sicilia, dal 1658, con Antonino (probabilmente figlio di Francesco e fratello di Giovanni Maria) e Antonino Vanelli (genero di Francesco) ma è problematico distinguere il loro apporto rispetto a quelli successivi di Tommaso, Biagio e Pasquale Amato[13].

Antonino Amato è nuovamente citato nel 1666[14] per la modesta commissione del piede del fonte battesimale della Chiesa Madre di Taormina, in pietra di Portasanta per 6 onze: anche in questo caso si doveva trattare di un figlio di Francesco e non del più noto Antonino di Giovanni Maria, incompatibile per ragioni di età.

Non sappiamo se Francesco ed il figlio Giovanni Maria siano stati gli iniziatori, coi loro familiari, dell’attività di marmoraro che sarebbe stata proseguita dai discendenti. Tuttavia i lavori al Duomo e al Palazzo Senatorio testimoniano un profilo professionale alto, già riconosciuto nell’ambiente cittadino.

Giovanni Maria risulta, inoltre presente a Catania nel 1683, molto prima del terremoto del 1693, come probabile conseguenza dell’esodo delle maestranze messinesi a seguito della fine della rivolta antispagnola[15].

 

3. ANTONINO AMATO DA MARMORARO A SCULTORE E ARCHITETTO

Antonino Amato ha lavorato nel Duomo di Messina (dopo l’intervento col padre nel 1685) nel 1694, quando l’arcivescovo Francesco Alvarez lo incaricò, col fratello Tommaso, di eseguire tutti i lavori in marmo della nuova Sacrestia[16] edificata su progetto dell’architetto Raffaello Margarita[17]. Ai lavori degli Amato possono appartenere le porte di identico disegno, due delle quali datate 1696, e le fonti a nicchia con putti ancora esistenti.

Antonino Amato eseguì nello stesso periodo, le porte della Cittadella col cognato Domenico Biondo[18] su disegno attribuito all’architetto Carlos de Grunembergh[19], sovraccarico di vistose ed incoerenti decorazioni come dimostrano Porta Grazia e la porta del martello ancora esistenti. Ben diverse risultano le eleganti porte probabilmente disegnate dal Margarita per la sacrestia de Duomo.

Antonino Amato, presente a Catania almeno dal 1683 col padre, dopo il 1693 spostò gran parte della sua attività in quella città, dove ebbe un’importante carriera professionale diventando scultore ed architetto molto richiesto dalla committenza. La sua presenza caratterizzò la prima fase della ricostruzione di Catania improntandola ad un repertorio decorativo popolare di ascendenza fanzaghiana (derivata dall’attività messinese di Innocenzo Mangani e dei suoi collaboratori) molto vistoso ma poco apprezzato dalla critica[20].

Antonino Amato continuò ad operare a Messina come scultore e quest’attività lo fece ricordare dalla letteratura cittadina a differenza dei suoi familiari. Nel 1691 scolpì la Statua di S. Pancrazio in marmo bianco, firmata e datata, innanzi all’omonima chiesa di Giardini Naxos: la scultura risulta di scadente fattura. Nel 1716 scolpì la seconda delle Quattro Fontane disegnate da Giacomo Calcagno: la prima fontana era stata eseguita da Innocenzo Mangani. Il Susinno[21] documenta la paternità dell’opera e definisce Amato “intagliatore di marmi” e “pratico dell’architettura”, lodandolo per aver fedelmente copiato l’opera del Mangani, come semplice scalpellino e conoscitore di architettura, non scultore o architetto. Sempre nel 1716 scolpì il Monumento del Gran Priore dei Cavalieri di Malta Don Andrea di Giovanni nella Chiesa di S. Giovanni di Malta[22] che è stato parzialmente ricomposto nel cortile della chiesa dei Cavalieri. Il basamento in marmi bianchi e neri, chiuso ai lati da volute, è spartito da una semicolonna centrale (con la cartella epigrafica in basso) che delimita gli spazi per le vigorose statue dei prigionieri in marmo nero e bianco e fa da base al busto del defunto, di modesta fattura, che doveva essere circondato da panoplie e associato allo stemma di famiglia.

Secondo Grosso Cacopardo[23], Ignazio Buceti[24] avrebbe scolpito le statue dei due mori. Secondo la Guida del 1902, peraltro, la seconda delle Quattro Fontane sarebbe opera del Buceti e non dell’Amato[25]e queste notizie possono far ipotizzare una collaborazione tra il marmoraro ed il più esperto scultore. Il monumento ricorda, nella sua impostazione generale, il mausoleo del gran maestro Nicola Cotoner (1686) nella concattedrale di S. Giovanni Battista a La Valletta, opera del romano Domenico Guidi[26].

La data del 1716 segna l’allontanamento di Antonino Amato da Catania, dove affidò i suoi cantieri ai figli Tommaso e Andrea[27] per tornare a Messina dove è documentato negli anni successivi come marmoraro per alcune commissioni, prima con i fratelli e poi con i figli. L’età avanzata e la morte del fratello Tommaso potrebbero essere state all’origine di queste decisioni: egli sarebbe tornato a Catania solo sporadicamente per accettare lavori in prevalenza come scultore.

Nel 1721 Antonino Amato fu tra i numerosi garanti del fratello Pasquale per l’importante commissione della cappella dell’Immacolata nel tempio di Boccetta, che doveva essere completata da un bassorilievo della titolare.

Nel 1724 Antonino Amato ed il fratello Pasquale furono invece garanti, secondo una diffusa prassi di collaborazione, del marmoraro Antonino Cardillo per la commissione di un’icona in via Porta Reale su disegno del crocifero padre Barbera[28]. Il lavoro era sicuramente di notevole importanza, come dimostrano la lettura del contratto ed una foto d’epoca[29]. Non è dato sapere se l’intervento degli Amato si sia limitato alla garanzia in favore del Cardillo come dichiara il documento: l’icona doveva avere due angeli scolpiti in marmo bianco che sostenevano una cortina. Il crocifero padre Barbera probabilmente si identifica con Antonino Barbera, importante architetto messinese[30].

Nel 1728 Antonino ed i fratelli Pasquale e Biagio eseguirono le decorazioni della facciata della Chiesa di S. Nicola dei Gesuiti annessa alla Casa Professa, in marmi bianco, di Serravezza e bardiglio. Antonino ricevette 52 onze per due statue in marmo bianco[31]. Le sculture probabilmente si identificavano con la Fede e la Religione che decoravano la porta maggiore della chiesa[32], perdute nel rovinoso crollo del 1908. La chiesa era decorata anche da statue di santi gesuiti collocate nelle nicchie alternate alle porte: due di queste sculture, di povera fattura, sono visibili nella documentazione fotografica[33] successiva al terremoto e sono conservate, in pessime condizioni, nei depositi del Museo Regionale ma non sappiamo se siano opera degli Amato. La commissione delle statue, di evidente importanza, conferma il ruolo prevalente di scultore dell’ormai anziano Antonino rispetto ai fratelli che ricevettero un compenso di 110 onze.

Nel 1729 Antonino Amato scolpì, coi fratelli Pasquale e Biagio, il Monumento dell’Arcivescovo Giuseppe Migliaccio in Duomo[34] su disegno del pittore Paolo Filocamo[35]. L’opera, danneggiata nell’incendio del Duomo del 1943, è andata perduta e ne rimane solo una parziale documentazione fotografica[36]: sul basamento con iscrizione poggiava il sarcofago in marmo nero affiancato dalle statue allegoriche della Prudenza e della Mansuetudine e sovrastato dal busto del prelato racchiuso in una cornice ovale sostenuta da angioletti.

Nel 1730 fu commissionata all’Amato la Statua dell’Apostolo Mattia[37], che insieme a quella di S. Giuda Taddeo di Ignazio Buceti doveva completare l’Apostolato del Duomo. Il Bottari[38] dà un giudizio negativo sulla scultura, che gli sembra tozza e greve, cavata a stento dal marmo. L’opera è stata distrutta nella ricostruzione del Duomo dopo gli incendi del 1943.

Una testimonianza sull’attività della bottega messinese di Antonino Amato è fornita da Carmelo La Farina[39]: lo scultore Ignazio Brugnani[40], morto giovanissimo nella pestilenza del 1743, ne frequentava di nascosto dai genitori lo studio.

Le ultime notizie su Antonino Amato risalgono al 1737 e 1738 quando il marmoraro sottoscrisse coi figli Domenico, Francesco, Giovanni Maria, Giacomo e Carmelo due contratti relativi alla realizzazione del pavimento della Chiesa di S. Anna delle Monache[41]. Era previsto l’uso di marmi bianco, mischio di Taormina e bardiglio, disposti su tre fasce di colori diversi. Antonino probabilmente si limitò a dirigere i lavori insieme a Giacomo, che ebbe l’incarico di procurare i marmi.

 

4. I FRATELLI DI ANTONINO AMATO

Alcuni fratelli di Antonino Amato lavorarono a Messina, continuando il mestiere di marmoraro e assicurarono la continuità della bottega di famiglia durante le prolungate assenze del fratello impegnato a Catania. I congiunti collaborarono alle opere di Antonino, lasciandogli il ruolo di scultore, ed eseguirono numerosi lavori come marmorari in società tra loro, singolarmente e con altri artigiani.

Tommaso Amato, dopo aver collaborato con Antonino alla nuova sacrestia del Duomo, nel 1700 realizzò da solo il pavimento in marmo bianco e lavagna di Genova dell’importante Chiesa di S. Domenico[42]. Nel 1706, ancora da solo, costruì una Fontana in marmo bianco di forma ottagonale nel Palazzo del Principe Brunaccini[43]. L’opera fu stimata 3 onze e 12 tarì e non ne possediamo alcuna descrizione: doveva trovarsi nel giardino di palazzo Brunaccini, giù sede dei Cavalieri della Stella.

Dal 1692 al 1715 Tommaso Amato ricevette parecchi pagamenti per consistenti lavori nella Chiesa di S. Antonio Abate a Castiglione di Sicilia: l’ultimo fu fatto ai fratelli Biagio e Pasquale perché egli risultava deceduto. Nella stessa chiesa avevano lavorato (dal 1658 al 1682) il nonno Francesco, il padre Giovanni Maria e altri congiunti i cui interventi non sono tuttavia facilmente riconoscibili[44]. Biagio e Pasquale Amato eseguirono nella chiesa di Castiglione nuovi lavori dal 1714 al 1717  verosimilmente in sostituzione del congiunto deceduto[45].

L’interno della chiesa risulta, a seguito dei lavori degli Amato, dominato da un grandioso arco trionfale in marmo rosso con poche decorazioni e per il resto è rivestito completamente di intarsi marmorei policromi con raffinati disegni floreali su fondo piatto, testimonianza del repertorio decorativo messinese del Seicento ancora in voga agli inizi del Settecento. Il sobrio arco trionfale è attribuito all’opera di Francesco e Giovanni Maria coi loro congiunti mentre gli intarsi dell’altare maggiore e della navata sono ritenuti opera di Tommaso e dei fratelli Biagio e Pasquale.

Nel 1713 Biagio e Pasquale Amato si impegnarono (con Pancrazio Bosco, Placido e Francesco Broccia) per realizzare la Cappella del SS. Sacramento nel Tempio dell’Immacolata in marmo bianco di Carrara, mischio di Taormina e marmi diversi per i commessi. Dovevano essere decorati l’altare, i piedistalli laterali, la scalinata sull’altare e la custodia. Il prezzo fu pattuito in 101 onze[46].

L’importante commissione faceva parte dei lavori che dovevano rinnovare l’interno della vetusta basilica gotica, stravolgendone l’aspetto: l’incendio del 1884 ed i successivi restauri, che tentarono di ripristinare l’aspetto originale della chiesa, distrussero probabilmente i lavori degli Amato prima ancora del rovinoso crollo del 1908.

Nel 1715 Biagio e Pasquale Amato (insieme a Santo Bara, Placido e Francesco Broccia, Pancrazio Bosco) realizzarono lavori per 51 onze e 15 tarì nella Cappella della Beata Eustochio in S. Maria di Montevergine[47]: se ne conosce soltanto la quietanza di pagamento e non il contratto di commissione, pertanto i lavori non sono descritti e non è noto il ruolo dei marmorari.

Sempre nel 1715 Pasquale Amato (con Melchiorre Zahami e Pancrazio Manganaro) realizzò una custodia con tabernacolo, due scalini e i piedistalli nella Cappella della Madonna del Rosario della Parrocchiale di S. Nicola di Bari a Giampilieri. I lavori prevedevano l’uso di marmo di “lauro” intarsiato a motivi di foglie e arabeschi su un fondo di pietra di Trapani. Il prezzo pattuito fu di 8 onze e 15 tarì. La descrizione coincide con la decorazione ancora esistente sul tabernacolo, sui gradini che lo affiancano e sui pannelli laterali dell’altare che mostrano un repertorio decorativo di tradizione seicentesca[48].

Nel 1716 Biagio e Pasquale Amato scolpirono per la Congregazione dei SS. Placido e Compagni Martiri due portali in marmo bianco e mischio di Taormina. Il costo era previsto in 38 Onze. Su uno dei portali doveva figurare un “tabellone” coronato con l’immagine di S. Placido: la descrizione induce a identificare questo elemento del lavoro nel grande medaglione coronato con l’effigie di S. Placido, oggi murato all’esterno della chiesa di S. Giovanni di Malta insieme con un elemento gemello con l’immagine di S. Flavia. Pur nel silenzio del documento, può darsi che la raffigurazione di S. Flavia facesse parte del secondo portale in un medaglione di uguale disegno[49].

Nel 1721 Pasquale Amato si impegnò (con Pancrazio Bosco) a realizzare la Cappella dell’Immacolata nell’omonimo tempio a Boccetta. Furono garanti Antonino e Biagio Amato, Antonino Cardillo, Santo e Lorenzo Bara. L’importante commissione prevedeva l’uso di marmo bianco, mischio di Trapani, verde cimigliano, mischio di Taormina e lavagna di Genova. Un bassorilievo centrale dell’Immacolata doveva completare l’altare. Il prezzo fu pattuito in 200 onze[50]. L’ambiziosa realizzazione doveva essere uno dei punti principali della completa revisione degli interni della basilica dell’Immacolata in stile barocco: 1’incendio del 1884 ed i restauri successivi hanno distrutto ogni cosa.

Nel 1724 Pasquale e Antonino Amato furono garanti di Antonino Cardillo per l’icona di Porta Reale. Nel 1725 Biagio Amato si impegnò per la scalinata in mischio di Taormina della Chiesa di S. Francesco di Paola a S. Pier Niceto[51]: la scalea sagomata esistente risulta realizzata in materiale diverso ma il cambiamento potrebbe essere intervenuto in corso d’opera.

Nel 1728 e nel 1729 Biagio e Pasquale collaborarono con Antonino per la decorazione della facciata di S. Nicola dei Gesuiti e per il monumento dell’arcivescovo Migliaccio in Duomo.

Nel 1730 Biagio Amato realizzò (con Francesco Broccia) una cappella e una nicchia con bassorilievo dello Spirito Santo nella Chiesa di S. Maria del Piliere ad Itala. Era previsto l’uso di marmo e di mischio di Taormina. I lavori non sono più identificabili nella chiesa, più volte restaurata[52].

Nel 1732 Biagio Amato eseguì (con Giuseppe Arena, genero di Santo Bara) la Cappella di S. Michele per conto di Ludovico Mannelli nella Chiesa di S. Maria di Portosalvo[53]. Il prezzo pattuito era di 53 onze. L’atto menziona alcune colonne di marmo giallo, i gradini dell’altare e lo stemma del committente ma probabilmente l’incarico riguardava l’intera cappella. Era previsto l’uso di marmo e di mischio di Taormina. La chiesa di S. Maria di Portosalvo va identificata con S. Maria di Portosalvo dei Padri Riformati, che all’epoca ancora ospitava la confraternita dei Marinai la cui sede sarebbe stata costruita altrove soltanto dopo il 1743.

Dal 1735 al 1737 Pasquale Amato e Santo Bara lavorarono all’Altare Maggiore della Chiesa di S. Maria degli Angeli su commissione di suor Chiara Stella Aquilone. I disegni dell’importante decorazione furono forniti dal pittore Paolo Filocamo. Furono usati marmo bianco, mischio di Francia, marmo di Serravezza, verde cimigliano. I lavori ebbero tempi lunghi, forse a causa della complessità del disegno[54]. La chiesa di S. Maria degli Angeli si identifica, con ogni probabilità, con quella annessa all’omonimo monastero di monache, che sorgeva nella salita degli Angeli al Tirone e di cui restano pochi e spogli ruderi.

 

5. Giovanni MARIA AMATO E LA FONTANA DEL MELA  A MILAZZO

Antonino Amato ebbe parecchi figli maschi e quasi tutti sono ricordati nei documenti come marmorari attivi a Messina. Poche ma significative commissioni documentano l’attività di Giovanni Maria Amato, nato intorno al 1699-1700[55]. Per la prima volta è ricordato nel 1737 e 1738 quando realizzò il pavimento della chiesa di S. Anna delle Monache sotto la direzione dell’anziano padre e in collaborazione coi fratelli Giacomo, Domenico, Francesco e Carmelo.


La settecentesca Fontana del Mela.


Nel 1757 eseguì l’altare maggiore della Chiesa di S. Maria della Pietà del Grande Ospedale[56]. I lavori furono diretti dall’architetto Antonino Basile[57] che stilò una relazione descrittiva dell’altare (di cui fu probabilmente il progettista) che aveva la mensa decorata da un paliotto marmoreo affiancato da elementi a colonna decorati con festoni e fogliami su cui erano posizionate le statue allegoriche della Fede e della Carità; al centro si elevava un’elaborata custodia a corona aperta; in alto due puttini in marmo forse concludevano l’altare. Furono utilizzati marmi pregiati, addirittura “agate orientali” e “diaspri fioriti” all’epoca non più usuali per questi lavori, e si ricorse a finiture in rame e oro per la custodia. Tarsie e intagli furono usati senza risparmio. L’incarico fu aggiudicato per 320 onze. Il marmoraro Placido Pizzimenti garantì l’esatta e puntuale realizzazione dei lavori entro il gennaio 1758, a dieci mesi dalla sottoscrizione del contratto. Il grandioso altare è giunto alla collocazione attuale nella cappella dell’ospedale Piemonte[58] gravemente manomesso e privo di alcuni elementi. Tuttavia le parti residue provano la raffinatezza del disegno e della sua esecuzione. Si conserva il paliotto in marmi policromi rossi, gialli e grigi intarsiati a girali concentrici, su fondo bianco e col motivo centrale del pellicano che nutre i piccoli col suo sangue. Pesanti mensoloni scolpiti con cherubini a rilievo racchiudono il paliotto mentre il tabernacolo, al centro dei gradini della parte superiore, presenta intarsi colorati e un cherubino in marmo a rilievo di bella fattura.

Sono rimaste separate dal corpo dell’altare (sistemate all’esterno della cappella su mensoloni dal complesso disegno scolpiti in marmo bianco con grandi foglie) le statue allegoriche che potrebbero essere opera di un buon scultore chiamato a collaborare dagli Amato, come suggeriscono i ricchi panneggi ed il bel putto che allatta. Le statue, coi mensoloni che le sostengono, dovevano essere posizionate ai lati della mensa. Mancano gli altri elementi ricordati nella relazione del Basile.

Nel 1762 Giovanni Maria Amato ottenne un’altra importante commissione a Milazzo per la nuova Fontana del Mela che doveva decorare la piazza del Carmine e fornire acqua a sufficienza di buona qualità ai cittadini. L’esito della commissione fu tuttavia poco felice e la documentazione pubblicata di recente[59] consente di ricostruire le difficoltà affrontate per questa importante opera pubblica. La fontana, da tempo distrutta ma documentata in fotografia, doveva sostituire una precedente antica fonte di Mercurio di cui nel 1759 si era chiesto il restauro, riconoscendo ben presto che sarebbe stato più conveniente procedere alla sostituzione. Nel 1761 fu espletata la gara per l’aggiudicazione dei lavori: parteciparono Giacomo Amato ed il fratello Giovanni Maria, la cui offerta risultò più vantaggiosa rispetto alla spesa stimata di 247 onze, Giovanni Maria aveva offerto un ribasso di 20 onze, Giacomo di sole 7,10 onze. Il contratto fu stipulato nel 1762 innanzi al notaio Giuseppe Majolino. Giovannì Maria collaborò col nipote Andrea Amato e con gli scultori Melchiorre Greco[60] di Taormina (ma abitante a Barcellona) e Vincenzo Bonaventura. Il disegno della fontana fu fornito da un “ingegnere” Giuseppe D’Ettore, probabilmente un dilettante, di Milazzo che risulta sconosciuto alle fonti cittadine. L’esecuzione andò incontro a gravi traversie e, una volta ultimata, fu contestata all’esito di un sopralluogo affidato al pittore Scipio Manni[61]. Fu necessario ordinare il rifacimento di gran parte dei lavori e modificare il disegno del D’Ettore. I memoriali dello scultore Greco e del garante dei lavori Saverio Filoramo, che fu non poco danneggiato, gettano una luce particolarmente sfavorevole su tutta la vicenda e sui suoi protagonisti dimostrando l’incapacità dell’ambiente cittadino a portare avanti in maniera adeguata un’iniziativa pubblica così importante.




Elemento originale della fontana settecentesca, oggi esposto nella fontanella di piazza Mazzini, fotografato sul finire degli anni Settanta in un deposito comunale di via G. B. Impallomeni (gentile concessione arch. Antonino Giardina).

Lo scultore Melchiorre Greco, che tentava di liberarsi dalle responsabilità attribuitegli per la cattiva riuscita, attaccò il progettista D’Ettore sostenendo che aveva fornito un disegno molto difettoso, specialmente per quanto riguardava la statua del fiume Mela. D’Ettore, che sorvegliava i lavori, aveva cercato di rimediare ordinando di modificare la statua già eseguita: lo scultore aveva dovuto, pertanto, voltare verso sopra la mano del dio fluviale che reggeva un remo. Greco aveva tentato di opporsi ad un ordine così assurdo rilevando che non era possibile modificare una scultura già eseguita, ma era stato costretto ad eseguire la richiesta con risultato negativo. La statua, a parere del Greco, risultava ben fatta salvo la mano che era stata rivoltata verso l’alto.





Piazza Battisti, particolari dell'elemento superstite della settecentesca Fontana del Mela dopo l'intervento di pulizia eseguito nel 2023.

Altre importanti circostanze erano riferite in un memoriale del garante Saverio Filoramo. Costui raccontava che le contestazioni erano sorte fin dall’inizio della costruzione, tanto che Giovanni Maria Amato si era dovuto rifugiare in chiesa per non essere arrestato ed il garante Filoramo era stato costretto a proseguire i lavori a proprie spese per evitare di essere arrestato. Ultimati i lavori da tre mesi, al Filoramo era stato ingiunto di distruggerli e rifarli a regola d’arte a seguito del sopralluogo, eseguito da Scipio Manni senza contraddittorio. Il garante aveva rifiutato di sottoscrivere il nuovo contratto richiesto dal giurati e di rifare i lavori ma era stato arrestato. Filoramo, negoziante, si proclamava estraneo alle mancanze rilevate, anzi le contestava poichè il progettista D’Ettore aveva seguito e approvato i lavori disponendo i pagamenti a stati di avanzamento. Filoramo, pertanto, credeva che non sussistessero i gravi difetti rilevati nel sopralluogo e che avevano causato l’ordine di rifare la fonte. Chiedeva che il giudizio fosse tolto all’autorità di Milazzo, che non aveva considerato le sue ragioni, e che si disponesse un nuovo sopralluogo in contraddittorio tra le parti. Le contestazioni di Scipio Manni erano specifiche e gravi: le statue risultavano più piccole e difettose rispetto al disegno, la vasca sistemata non al livello giusto e gli scalini addirittura inclinati verso l’interno tanto da riempire la fonte di acqua e fango. I ricorsi del Greco e del Filoramo furono respinti e si confermò il quasi totale rifacimento della fontana. Filoramo, ribadendo le proprie ragioni, riferìva ancora importanti notizie sull’esecuzione dei lavori. Stando al garante, Giovanni Maria Amato aveva ricevuto dalla città di Milazzo un acconto di 100 onze per i marmi ma si era, in concreto, disinteressato dei lavori, mandando sul posto il nipote Andrea Amato, peraltro pratico del mestiere, insieme ai mastri. Giovanni Maria non aveva dato il denaro necessario per pagare i mastri e Andrea Amato che dirigeva i lavori: Filoramo sosteneva di aver dovuto fin dall’inizio sborsare i soldi necessari per evitare il carcere. Erano tuttavia sopravvenute le nuove contestazioni all’esito del sopralluogo e Filoramo, incarcerato, avrebbe dovuto rifare i lavori. Nuove contestazioni rimisero in discussione l’operato del progettista D’Ettore: costui aveva previsto che si scolpissero quattro statue di pavoni ma questa sua originale ideazione non aveva potuto avere esecuzione perchè non sarebbe stato possibile far passare le tubature dell’acqua negli esili colli degli uccelli. I giurati di Milazzo, incaricati di risolvere la questione, decisero di sostituire i pavoni con cavalli marini ben noti nel repertorio delle fontane messinesi. A completare il quadro di incapacità professionale degli operatori coinvolti, non mancarono contestazioni sui lavori delle condutture. Il risultato della complicata vicenda fu meno che mediocre: una bassa vasca polilobata con piccole cartelle per le iscrizioni[62] conteneva il rustico isolotto della fonte ai cui piedi erano posizionati i cavalli marini, mentre a mezza altezza stavano le aquile civiche di Milazzo e in alto la statua del Fiume Mela rappresentato come un uomo nudo barbuto, malamente accovacciato sulle rocce, che tiene nella destra un remo e con la sinistra versa acqua da un orcio dentro una vaschetta. La fontana risultava scadente sotto ogni aspetto, a conferma del duro colpo arrecato all’ambiente artistico messinese dalla pestilenza del 1743 che aveva ucciso quasi tutti gli artisti operanti in Città. La statua del Mela aveva una posizione infelice e poco curata ne risultava l’anatomia. Cavalli marini e aquile (una delle quali ancora conservata) non erano certo di migliore fattura e persino la vasca era di modesto disegno. La responsabilità di Giovanni Maria Amato, o meglio del nipote Andrea Amato (figlio di Giacomo?) suo incaricato, deve essere circoscritta all’operato dei marmorari che non risultò certo immune da severi giudizi, tanto che la forma della vasca fu contestata insieme alla sistemazione difettosa dei gradini. Il rifacimento dei lavori, non sappiamo fino a che punto radicale come intimato dapprima, non ha risolto di certo i problemi dell’infelice realizzazione originati da una progettazione modesta (se non dilettantesca) e aggravati da un’esecuzione tutt’altro che brillante e tecnicamente corretta.

 





1990, rinasce la Fontana del MelaIl 2 luglio 1763 gli amministratori comunali di Milazzo informavano il viceré Fogliani che il “fonte marmoreo” del Piano del Carmine era ormai quasi pronto. La statua del Dio Mela risultava già collocata. Mancavano all’appello soltanto i quattro pavoni, la cui realizzazione si presentava alquanto problematica. I loro colli, come da progetto, non consentivano il passaggio delle condutture dell’acqua, erano troppo stretti. D’altra parte non avrebbe avuto senso ingrossarli, in quanto se da un lato questo espediente avrebbe consentito all’acqua di poter sgorgare agevolmente, dall’altro il passaggio delle condutture avrebbe inevitabilmente alterato forme e proporzioni dei pennuti. Fu allora che si decise di optare per quattro cavalli marini, collocati in sostituzione dei pavoni e ben visibili nella cartolina d'inizio Novecento pubblicata in precedenza (dalle inedite ricerche condotte dalla dott.ssa Elvira D'Amico presso l'Archivio di Stato di Palermo, recentemente pubblicate dalla Lombardo edizioni: nota a cura di Massimo Tricamo; in basso, un bando coevo sulla fontana trascritto dallo stesso Tricamo).

Bando e comandamento d’ordine della Spettabile Deputazione de’ Fonti di questa Sempre Fidelissima e Leale Città di Milazzo (1764 ca.)

L’inconveniente che si sperimenta d’avere taluni arrogantemente portato a bevere diversi animali nel Fonte Marmoreo esistente nel piano di questo Venerabile Convento del Carmine e di andare a lavare in detto Fonte, con tanta porchezza e con pericolo di divastarsi sudetta Fonte; siccome l’altro di avere non puoche persone lavato robbe, fogliame ed altri nella beveratura vicino la casa e banca di Notar Don Giovanni Battista Maiolino, solamente destinata per beverarsi in essa l’animali, muove lo zelo di essa Spettabile Deputazione di far publicare e fissare a luoghi vicini di esso fonte il presente pubblico bando per la scienza ed intelligenza d’ogn’uno.

In forza del quale si ordina, provede e comanda che nessuna persona di qualunque grado e condizione si fosse ardisca di portare animali d’ogni sorte per beverarsi in detta fontana nel piano del Carmine, dovendo solamente valersi per beverare sudetti animali nella beveratura esistente alla cantonera della casa e banca di Notar Don Giovanni Battista Majolino, sotto la pena d’ogni contravventore e per ogni volta che contravenirà di onze due applicabili al sudetto fonte e di giorni otto di formale carcerazione che si faranno subire al semplice detto, anche d’un testimonio, d’avere portato animali per bevere in detta fonte marmorea.

E similmente si proibisce a qualunque persona come sopra di potere lavare robbe, fogliame o qualsisia altra cosa tanto in detta fonte marmorea quanto in detta beveratura designati per beverarsi gl’animali, sotto le stesse pene di onze due di denari applicabili allo stesso fonte e di giorni otto di carcere formale per ogni volta che contraverà, da esigersi irremisibilmente come sopra e da condannarsi da uno de’ deputati di essa Spettabile Diputazione, anche in forza della deposizione di un solo testimonio.

E ciò per il vantaggio che ne resulta a questo pubblico e per evitarsi i disordini passati, pej quali se ne sono avanzate da questi singoli le più premurose istanze alla detta Diputazione e non altrimenti unde.

Si promulghi

Lo Monaco giurato seniore

Marullo sindaco

Zirilli deputato

Barone Proto deputato

Bonaccorsi deputato [documento è custodito nel fondo marchesi Proto della Biblioteca ed Archivio Storico "Bartolo Cannistrà" annessa al Museo Etnoantropologico e Naturalistico "Domenico Ryolo"].

 

6. GIACOMO AMATO E LA FACCIATA DI PALAZZO PROTO A MILAZZO

Giacomo Amato nacque tra il 1702 ed il 1703 a Catania, dove il padre Antonino si era da tempo stabilito[63]: la sua attività è documentata da numerose, e in alcuni casi importanti, commissioni.

Nel 1732 eseguì, su incarico del tintore Giuseppe Bartolomeo, i gradini e la predella dell’altare maggiore della Chiesa di S. Liberale dei Tintori, edificio di culto gestito da una popolare confraternita: il lavoro doveva essere realizzato in mischio di Taormina ed era di modesta consistenza[64].

Dal 1736 al 1740 Giacomo ed il congiunto Tommaso (da non confondere con lo zio Tommaso morto intorno al 1715) ricevettero parecchi pagamenti, dalle famiglie Bosurgi e Lombardo e da altri committenti, per il paliotto, le colonne, ed altri marmi dell’Altare Maggiore della Chiesa di S. Maria Assunta a Rometta[65]. L’altare, completato nel 1771, nonostante qualche modifica è ancora conservato ed ha un paliotto intarsiato di marmi policromi (con un grande ovale centrale a rilievo dell’Assunta) tra mensoloni a voluta scolpiti a forte rilievo e i consueti gradini ai lati del tabernacolo; una grandiosa edicola per il quadro, con quattro colonne, regge il timpano spezzato su cui posa una grande corona. L’uso sapiente dei marmi colorati rossi e verdi, alternati al marmo bianco, e di parti scolpite (specie nell’aerea corona) contribuisce a una buona riuscita dell’opera.

Nel 1737 e 1738 Giacomo Amato partecipò col padre e i fratelli Giovanni Maria, Domenico, Francesco e Carmelo alla realizzazione del pavimento della chiesa di S. Anna delle Monache. Giacomo· è citato soltanto nel secondo contratto e si impegnò a procurare i marmi necessari.

Il Palazzo dei Marchesi Proto in una foto del 1928 

(gentile concessione arch. Andrea Proto)

Nel 1738 eseguì il paliotto dell’Altare del SS. Sacramento della Chiesa di S. Giorgio Martire e della Madonna della Lettera a Monforte S. Giorgio[66]. che si segnala per la particolare raffinatezza del disegno: sobrie mensole scolpite inquadrano il rettangolo del paliotto, decorato da un originale disegno a volute con lo scudo centrale raffigurante l’Eucarestia. L’uso di pregiati marmi colorati per gli intarsi sottolinea il valore della composizione per il cui disegno si deve pensare all’intervento di un pittore.

Nel 1740 Giacomo Amato consegnò il paliotto dell’Altare di S. Biagio nella Chiesa S. Maria Assunta  di Rometta, per cui aveva ricevuto acconti nel 1736, 1737 e 1738. Il lavoro fu saldato al congiunto Tommaso[67]. Altri lavori erano stati nel frattempo eseguiti da Giacomo per la stessa chiesa: nel 1735 aveva ricevuto, insieme a Placido Pizzimenti, un acconto per il paliotto dell’Altare della Madonna del Sabato il cui prezzo fu saldato nel 1736; negli anni 1736-1737 aveva realizzato il paliotto per l’Altare di S. Francesco Saverio; nel 1738 aveva fornito un modesto gradino per l’Altare della Pietà. L’impegno degli Amato per la chiesa di Rometta continuò ancora a lungo e coinvolse altri esponenti della famiglia: nel 1739 Tommaso Amato fu pagato per i marmi relativi alla Cappella di S. Francesco di Paola; nel 1758 Andrea Amato realizzò con Pietro Bara e Antonino Alessi la custodia dell’Altare del SS. Sacramento i cui lavori furono proseguiti da Pietro Bara sotto la supervisione dell’architetto Antonino Basile negli anni successivi. Infine lo stesso Giacomo Amato, nonostante una causa per i lavori, fornì marmi per la Cappella della Madonna del Sabato negli anni 1770-1772[68].

Nel 1741Giacomo Amato realizzò, per appena 2 onze, una fonte battesimale in marmo bianco (ancora esistente), per la Parrocchiale di S. Nicolò di Bari a Gualtieri Sicaminò[69].

Nel 1755 Giacomo Amato (rappresentato dal congiunto Tommaso) e Tommaso D’Arrigo si impegnarono a realizzare e consegnare entro il 1756 per la Chiesa Madre di S. Lucia a Mistretta, sulla base di un disegno rimasto a mani dell’Amato, dieci paliotti e la “cancellata” di chiusura del presbiterio per la somma di 190 onze. Nel 1757 il procuratore della chiesa don Giuseppe Romano (che aveva firmato il contratto con l’abate Giovanni Gallegra) rifiutò la “cancellata” affidandone l’esecuzione al altri mastri. I paliotti invece furono realizzati e consegnati nel 1757[70]. Trasporto e collocazione furono curati da Giacomo Amato tramite i suoi dipendenti.

I Paliotti seguono, con poche varianti nel disegno e nelle dimensioni, il modello fissato nel disegno citato dal contratto: sono ancora riconoscibili nelle cappelle della Madonna di Pompei, della Madonna Odigitria e di. S. Lucia, nei quattro altari della navata sinistra e nei primi tre della navata destra. Il disegno, poco fantasioso, prevede due piatte mensole di chiusura ai lati e un grande scudo centrale cruciforme, tra rilievi in marmo bianco che inquadrano la croce. La sobrietà del disegno è compensata dalla ricchezza dei marmi colorati: furono impiegati il rosso misco di Francia, la pietra di Francia, il nero paragone, il Brucatello di Spagna, il Serravezza e il Bardiglio di Genova.

Risale agli anni 1763-1764 la commissione relativa al rifacimento della facciata principale di Palazzo Proto, importante residenza aristocratica che prospettava sulla centrale piazza del Carmine di Milazzo. L’incarico è documentato da due contratti del Fondo Archivistico Marchesi Proto che consentono di ricostruirne nel dettaglio le vicende.

Le origini di palazzo Proto, edificio dalla storia complessa e tormentata dal ripetersi di gravissime distruzioni belliche, risalgono agli inizi del Seicento quando la nobile famiglia Baele, come le altre casate dell’aristocrazia cittadina, abbandonò la sua scomoda abitazione all’interno della Città Murata al Castello per stabilirsi nel quartiere di Terra Nuova.

L’insediamento, prossimo al mare, era stato previsto dagli interventi urbanistici cinquecenteschi ed era dotato di un razionale impianto con vie rettilinee e una divisione del terreno edificabile in piccoli lotti. Il nuovo quartiere, infatti, nelle intenzioni avrebbe dovuto essere destinato al ceto popolare ma la nobiltà ben presto iniziò a costruirvi i propri palazzi accorpando più lotti. I Baele riuscirono ad unificare in un solo grande isolato le porzioni di terreno che fronteggiavano il convento dei Carmelitani, assicurandosi una posizione di grande prestigio nella centrale piazza del Carmine. Non siamo informati sulla realizzazione del grande edificio che risulta tuttavia completo nel 1623[71] e compare nella cartografia dell’assedio del 1718-1719, che ne documenta la mole imponente[72]. Il fabbricato si estendeva su tutto il grande isolato ora occupato da palazzo Proto e dall’adiacente edificio del Banco di Sicilia: parte del Palazzo fin dal 1655 passò alla famiglia Cirino per matrimonio ed ebbe vicende autonome. Gran parte dell’edificio originario fu distrutta durante l’assedio spagnolo del 1718-1719 essendo esposta al tiro delle artiglierie. Il Palazzo fu ripetutamente colpito: il diarista Domenico Barca[73] annotava il 28 febbraio 1719 il crollo dei prospetti dai lati di Libeccio e Scirocco, corrispondenti alla facciata principale sulla piazza ed a quella secondaria volta a Mezzogiorno. Il Palazzo era stato più volte centrato dalle batterie spagnole posizionate tanto a Levante che a Ponente e molti difensori, che vi si trovavano acquartierati, erano rimasti feriti o uccisi. Uno dei comandanti aveva fatto costruire, all’interno, una casamatta dal lato di Ponente che fu ugualmente colpita dai bombardamenti. Nuove distruzioni furono arrecate dall’esplosione di una bomba, il 6 marzo 1719, che fu seguita da un violento incendio[74]. Non siamo informati sulla ricostruzione dopo gli eventi bellici ma probabilmente in questa fase i Cirino procedettero ad una autonoma riedificazione della loro porzione di edificio, spezzandone per sempre l’unitarietà.

Nel 1728 Francesca Patti Baele (erede dei Baele già estinti nella linea maschile) sposò Paolo Proto e la maggior parte del Palazzo passò a questa importante famiglia che ne curò la ricostruzione nel corso del Settecento. Non conosciamo la consistenza dell’edificio, al momento dell’incarico a Giacomo Amato per il rifacimento della facciata: come risulta dai contratti sottoscritti nel 1763 e 1764 il fabbricato, ormai materialmente distinto dall’adiacente palazzo Cirino, doveva essere pressoché completo e ovviamente dotato di una facciata principale sulla piazza del Carmine. Tuttavia questo prospetto doveva risultare inadeguato tanto che i Proto lo vollero riformare integralmente e adeguare al contesto edilizio ricostruito e valorizzato dalla nuova fontana pubblica del 1762.

Il primo contratto, firmato innanzi al notaio Giuseppe Maiolino, in data 20 marzo 1763, da Francesco Maria Proto barone dell’Albero e da mastro Giacomo Amato, ricorda espressamente la piazza su cui sarebbe sorta la nuova facciata della residenza. Oggetto del contratto era la realizzazione di un nuovo prospetto principale sulla base del disegno, di autore ignoto, in possesso del notaio. La vecchia struttura doveva essere interamente dismessa: finestre e finestroni, i balconi ed il portone dovevano essere smantellati a cura di Giacomo Amato. Soltanto il pianterreno e l’appartamento del defunto Visconte Proto non dovevano subire alcun rifacimento, pur essendo previsti nel progetto. Tutto il materiale di risulta sarebbe rimasto a disposizione del committente e non sarebbe stato riutilizzato nella nuova facciata. Il portone principale  sarebbe stato rifatto secondo un disegno che sarebbe stato procurato da Giacomo Amato, evidentemente ricorrendo a un architetto suo collaboratore. Il nuovo portone sarebbe stato realizzato in pietra di Siracusa e ornato dallo stemma di famiglia. Giacomo Amato si impegnò a realizzare tredici finestroni in pietra di Siracusa, di cui sette al secondo piano e sei al primo: dovevano essere completi di cagnoli, balate, cornici e ogni altra finitura prevista dal progetto. Erano previsti inoltre quattro pilastri dello stesso materiale, esclusa la zoccolatura fino all’altezza della prima fascia della cornice del primo piano che già esisteva. A completamento dei lavori sarebbe stata eseguita l’intonacatura della nuova facciata.

I lavori avrebbero dovuto essere ultimati entro un anno ed il compenso era fissato in 160 onze, incluso il costo dei materiali e le 20 onze pattuite per il portone. Fu pagato un acconto di 40 onze (di cui solo 10 in moneta e 30 in tonnina o mosto) e previste altre tre rate da pagare entro il maggio 1766.

Un secondo contratto fu sottoscritto dalle stesse parti innanzi al notaio Maiolino il 20 febbraio 1764 e dava atto dei lavori già realizzati e di quelli ancora da fare. Era ormai prossima la scadenza del termine originario del 20 marzo 1764 ma certamente i lavori non erano vicini al completamento. Secondo il nuovo strumento notarile Giacomo Amato avrebbe dovuto realizzare sette finestroni nel primo piano e sei nel secondo (al contrario di quanto si legge nel precedente contratto) completi in ogni loro parte secondo il disegno in possesso del notaio e controfirmato dalle parti. Amato aveva già realizzato il portone principale con i quattro balconi soprastanti e due pilastri col relativo cornicione. Erano state eseguite le decorazioni sopra i due balconcini dell’appartamento superiore ed era stata aggiunta una cornice al balcone di sotto. I due balconi della camera da letto erano già stati portati a termine. Il committente aveva pagato questi lavori nonchè il prezzo di 300 palmi di pietra di Siracusa necessari per ultimare l’opera: tre pilastroni, il cornicione e le finiture dei balconi ancora mancanti. Le parti convenivano di voler realizzare queste opere, nonchè un tratto di muro (dal lato della proprietà Cirino) per arrivare al livello già esistente nella proprietà del vicino. I lavori erano adesso estesi all’appartamento del defunto Visconte Proto, i cui due balconi dovevano essere uguali agli altri. Inoltre nel piano terreno si dovevano aprire tre portoni di pietra di Siracusa uguali a quello già realizzato ed eseguire altre modifiche sui balconi. Amato avrebbe dovuto ancora costruire tre balconi al primo piano e cinque al secondo e avrebbe dovuto integrare a sue spese la fornitura di pietra già pagata dal committente se non fosse risultata sufficiente. Se fosse avanzata parte della pietra fornita dal proprietario, invece, costui ne sarebbe rimasto proprietario. I lavori non dovevano superare il cantonale all’angolo della via S. Agostino e, pertanto, si confermava che il cantiere edilizio riguardava solo la facciata principale sulla piazza del Carmine, in tutta la sua estensione e non estendersi ai restanti prospetti secondari lungo la via S. Agostino e la retrostante strada maestra.

Il contratto non prevedeva un termine per i lavori ma stabiliva che dovevano continuare tutti i giorni fino al completamento. Il prezzo fu modificato pattuito ma risultava già in parte pagato: le 25 onze rimanenti sarebbero state utilizzate da Proto per pagare gli operai liberando Amato da ogni obbligo fino alla concorrenza di quella somma. Amato avrebbe dovuto corrispondere i salari per le eventuali somme eccedenti le 25 onze.


La successione di Visconte Proto risulta chiaramente la causa che rese necessario il nuovo contratto. Nel 1763 l’appartamento del defunto, pur essendo previsto nel progetto, era stato escluso dai lavori. L’immobile di proprietà di Visconte Proto era in pessime condizioni e, mancando mezzi economici adeguati, i rappresentanti del figlio minore decisero di concederlo in enfiteusi a Francesco Maria Proto (zio del bambino) per un canone di quattro onze all’anno, rendendo possibile un razionale intervento su tutto l’edificio e scongiurandone il crollo, come risulta dai documenti del Fondo Archivistico Marchesi Proto. Nel 1764 la questione era ormai risolta, dopo aver ottenuto le autorizzazioni rese necessarie dalla minore età del proprietario. L’importante novità potrebbe aver determinato altre modifiche al prospetto ed è certo che ora si voleva procedere anche alla trasformazione del piano terreno. La prevista intonacatura di tutto il prospetto era ovviamente confermata.

Alcuni atti notarili del Fondo Archivistico Marchesi Proto confermano l’ambito dei lavori, circoscritti al rifacimento della facciata principale. Un contratto del 19 dicembre 1763 si riferisce alla realizzazione di dodici ringhiere di balcone in ferro, grandi e piccole, da parte de mastri Francesco Malalana, Giuseppe Imbesi e Saverio Scarpaci. Le inferriate dovevano essere uguali a quella del balcone della sala, già esistente, e dovevano essere consegnate entro il marzo 1764, seguendo le indicazioni dei mastri impegnati a costruire i balconi sulla piazza. Un contratto del 20 gennaio 1764 riguarda la realizzazione dei serramenti in ferro delle imposte di undici finestroni, curata da alcuni artigiani (Francesco Malalana, Giuseppe Malalana, Rocco Lo Presti e Saverio Scarpaci) su commissione del messinese mastro Antonino Crapè che lavorava alle aperture.

L’unico lavoro relativo all’interno del Palazzo è documentato da un contratto del 30 gennaio 1764 in cui mastro Letterio Bevacqua, messinese, si impegnava a realizzare a regola d’arte pareti e volta del salone, rifinite in stucco come nell’anticamera. Non sappiamo chi avesse lavorato, e quando, nell’anticamera. Mastro Francesco Mirenda fu incaricato di valutare e approvare i lavori in ferro e in stucco previsti dalle ultime due commissioni a margine del rifacimento della facciata.

Palazzo Proto è stato in gran parte distrutto dai bombardamenti del secondo conflitto mondiale, salvo una piccola parte su via S. Agostino, già appartenuta ai Lucifero, non interessata dai lavori del 1763-64 e rimaneggiata dopo il terremoto del 1783: la ricostruzione postbellica ha riproposto il disegno del prospetto settecentesco distrutto[75] con sensibili varianti ma l’aspetto originale si desume chiaramente dalle fotografie d’epoca.

L’ignoto progettista della facciata di palazzo Proto non aveva raggiunto un risultato adeguato all’importanza dell’edificio ed alla sua prestigiosa posizione nella piazza principale di Milazzo. Privo di un progetto valido, palazzo Proto era un vasto caseggiato signorile ed elegante ma dal disegno debole.

Sei piatti pilastri spartivano l’estesa superficie del prospetto alternandosi ai balconi decorati, sette per ognuno dei due piani. Una cornice decorata da grandi festoni concludeva il prospetto. I quattro balconi del prime piano, ai lati di quello centrale, erano abbinati e sostenuti da pesanti mensoloni a più volute. I balconi conclusivi del primo piano e tutti quelli del secondo erano più piccoli e semplici. Tutti i balconi avevano ringhiere a petto d’oca. Gli architravi dai balconi erano decorati da coppie di volute affiancate ad una palmetta centrale.

Le foto d’epoca non consentono di stabilire l’aspetto del piano terreno dopo i lavori degli Amato: già nel 1808-09 il portone centrale era stato oggetto di un grandioso ma dissonante intervento neoclassico, su progetto di Antonino Tardì, che aveva  coinvolto anche il balcone soprastante[76].




La firma autografa del progettista Antonio Tardì apposta in calce alla relazione dell'intervento del 1808/09 (Archivio Storico "Bartolo Cannistrà" del Museo Etnoantropologico e Naturalistico "Domenico Ryolo" di Milazzo, fondo marchesi Proto).


Ai lati si aprivano due ingressi secondari a semplice arco, ciascuno tra due botteghe di analogo dimesso disegno. Il terzo portone minore era posizionato in via S. Agostino, a ridosso del cantonale e prima della porzione di edificio un tempo di proprietà Lucifero. I tre ingressi secondari dovevano avere, per contratto, lo stesso aspetto di quello principale che, pertanto, doveva essere piuttosto semplice. Quale che fosse il disegno originario del portone centrale, sembra chiaro che fosse stato ben presto giudicato troppo modesto e sostituito dal magniloquente ingresso a quattro colonne tuscaniche e trabeazione classica con metope e triglifi che sosteneva il balcone, visibile nelle foto d’epoca, dopo le visite dei principi Francesco e Leopoldo di Borbone e del sovrano Ferdinando III nel 1806: certamente questo avvenimento deve aver indotto a rinnovare l’ingresso del palazzo che aveva ospitato i regali personaggi come ricordavano due iscrizioni[77] ai lati del portone.

Giacomo Amato aveva realizzato progetti altrui, come facevano solitamente gli Amato, a maggior ragione per le opere più impegnative: esistevano un disegno generale ed uno specifico per il portone, non sappiamo se opera dello stesso architetto ma il secondo sicuramente di un professionista in rapporti con Giacomo Amato. La distruzione dei partiti lapidei originali realizzati dagli Amato per balconi e portoni impedisce di valutarne l’operato nell’esecuzione del progetto.

Risalivano al 1765 i lavori nella distrutta Chiesa dell’Annunziata a Rometta, di cui non si conosce l’entità[78]. Nello stesso anno Giacomo Amato realizzò l’altare maggiore della Parrocchiale di S. Nicola di Bari a Roccavaldina[79]: se ne conservano la bella scalea e la base con paliotto intarsiati di marmi policromi tra mensoloni scolpiti a grandi volute e medaglioni col SS. Sacramento e S. Nicola. La parte superiore fu sostituita nel 1858-59 mentre è stata conservata la grandiosa macchinetta in legno dorato.

Negli anni 1771-77 Giacomo Amato realizzò il monumentale Altare Maggiore della Parrocchiale di S. Nicola di Bari a Giampilieri Superiore[80], su commissione (1771) del cappellano Michele Busà e dei rettori[81], secondo il progetto dell’architetto Giovanni Francesco Arena[82] che rappresenta il trionfo del Barocchetto a Messina: la struttura si eleva su due gradini e la base è animata da un deciso movimento concavo-convesso. Una coppia di mensoloni scolpiti a motivi foliacei affianca il paliotto mobile arretrato tra grandi volute e con elaborato scudetto centrale, che nasconde un presepe con poche grandi figure. Pesanti cilindri decorati a grandi foglie chiudono ai lati l’altare su cui si eleva la consueta scalinata col tabernacolo centrale, che fa da base alla grande macchinetta a quattro pilastri ed altrettante colonne corinzie libere sovrastata da un timpano spezzato. Al centro figura la statua policroma della Vergine su un globo stellato, sostenuta da angeli e circondata da una raggiera con cherubini dorati. Sulla trabeazione una coppia di angeli in marmo bianco regge una spettacolare corona in metallo dorato concludendo l’altare. Ai lati la gradinata asseconda il disegno degli elementi cilindrici alla base e regge due piccole basi della stessa forma, su cui posano le statue in marmo bianco di S. Nicola di Bari e S. Giovanni Nepomuceno che completano la mossa composizione.

La spettacolarità del progetto è esaltata dall’uso sapiente di marmi bianchi (per le statue e le parti scolpite) e colorati (per gli intarsi) nonché dal ricorso alla bella statua policroma centrale della Vergine con i suoi elementi di contorno dorati ed alla grande corona dorata conclusiva, elementi estranei all’attività dell’Amato. La maestria del marmista esecutore si manifesta nella scelta e lavorazione dei marmi dalle più disparate provenienze. Le statue dei santi e la coppia di angeli sono la parte più debole: gli angeli sono rigidi e impacciati, bloccati nei movimenti; i santi si presentano riccamente decorati nei dettagli del vestiario ma sono pesanti e privi di vita.

L’operato di Giacomo Amato può essere valutato grazie alla dettagliata relazione allegata al contratto mentre è andato perduto il disegno dell’Arena, citato espressamente, che doveva guidare gli esecutori. Il documento descrive in maniera attenta le fasi esecutive ed i materiali da usare: partendo dalla base marmo rosso di Taormina e bardiglio per gli scalini, marmo bianco impiallacciato di mischio di Trapani per le fiancate, marmo bianco impiallacciato di verde di Cimigliano per i modiglioni in marmo bianco della base, marmo bianco intarsiato di Serravezza per i modiglioni laterali, marmo giallo di Broccatello e verde di Sannevero per la scalinata sulla mensa, marmo di Serravezza per le impiallacciature ai lati, mischio di Francia per le basi delle statue, brallea di Francia per la “rotellina”, verde antico per i finimenti del tabernacolo, marmo di Serravezza e mischio di Trapani per i piedistalli delle statue in marmo bianco statuario, verde Cimigliano per i pilastri della macchinetta, marmo bianco statuario per gli angeli. La statua dell’Immacolata ed il suo contorno di angeli e cherubini erano previsti in marmo bianco statuario ma furono scolpiti in legno dorato, modifica annotata nella relazione. La corona conclusiva doveva essere in marmo giallo ma fu realizzata anch’essa diversamente.

Il contratto precisa che i marmi dovevano essere lucidati a specchio e avere il giusto spessore. Gaffe metalliche, in ferro o bronzo, sarebbero state utilizzate per fermare le parti dell’altare. Il prezzo fu pattuito in 220 onze da pagare in tre rate, a stati di avanzamento. I marmi dovevano essere lavorati a Messina e trasportati alla marina di Giampilieri a spese dell’Amato. La parrocchia avrebbe provveduto a trasportarli sino alla chiesa. I lavori avrebbero dovuto essere completati a fine gennaio 1772 ma risulta che furono ultimati soltanto nel 1777.

 





Palazzo Proto, particolari della fotografia del 1928.



7. GLI ULTIMI AMATO                                

Nel 1791 Antonino Amato e Simone De Salvo si impegnarono, nella loro qualità di mastri mazzoni, a realizzare tutte le opere pertinenti alla loro arte (in pietra forte e pietra di Siracusa) necessarie al completo restauro dell’ExCasa Professa dei Gesuiti, all’epoca monastero dei Cistercensi[83]. Antonino Amato era figlio del defunto Giovanni Maria. I lavori furono commissionati dal Regio Erario e dovevano essere eseguiti sotto la direzione degli architetti Francesco Basile[84] e Letterio Costa[85]. Il documento non menziona espressamente la monumentale Chiesa di S. Nicolò, annessa alla Casa Professa e come questa gravemente danneggiata dal terremoto del 1783. Tuttavia è probabile che la commissione riguardasse anche la chiesa, i cui restauri furono eseguiti dagli architetti Basile e Costa e ultimati nel 1802.

Risale al 1799 la commissione relativa al nuovo Altare Maggiore della Parrocchiale di S. Maria di Calispera a Contesse[86]. Il lavoro fu eseguito da Antonino Amato su progetto dell’architetto Lorenzo Lisitano dietro incarico dei rettori e compensato con la somma di 120 onze. Lisitano fu anche collaudatore dell’opera e relazionò sui lavori. Amato utilizzò pietra di Siracusa impiallacciata di marmo colorato, pietra di Taormina per la zoccolatura ed i gradini. Provvide anche a spicconare e imbiancare i muri dell’abside e a posizionare il pavimento in mattoni davanti all’altare. Nel 1807 il procuratore don Paolo Siracusano ed i rettori decisero di rifare la “macchinetta” in proporzioni maggiori adeguate incaricando lo stesso Antonino Amato collaborato dal maestro Giovanni Troina. Fu anche aggiunto all’altare uno scalino “alla romana”. Il disegno dei nuovi lavori, presentato da Amato e Troina, fu rivisto e approvato dall’architetto Lisitano. La macchinetta doveva essere ricostruita in pietra di Siracusa, impiallacciata di marmi colorati, secondo le direttive di Lisitano. Gli esecutori dei lavori dovevano provvedere anche a sistemare una corona conclusiva in legno dorato. I lavori di muratura dietro l’altare erano invece di competenza dei rettori della parrocchia che fornirono anche calce, pietra e gesso. Il prezzo fu fissato in 60 onze da pagare in tre rate, alla firma del contratto, a metà lavori ed al collaudo dell’opera da parte dell’architetto Lisitano. Il trasporto dei marmi era a spese della parrocchia. Sarebbero stati riutilizzati i marmi della precedente macchinetta.

L’altare realizzato nel 1799 e modificato nel 1807 da Antonino Amato, su progetto dell’architetto Lisitano, è stato rimontato nella nuova Parrocchiale dell’Immacolata di Contesse, costruita dopo il terremoto del 1908. Non sappiamo se siano intervenute modifiche ma l’altare risulta privo della corona dorata menzionata dai documenti, forse mai effettivamente collocata perché incompatibile col nuovo disegno della macchinetta. La struttura è un’elegante realizzazione dell’ultimo Barocchetto messinese: risulta priva di movimento e libera da eccessive decorazioni ormai fuori moda. La base è spartita geometricamente, chiusa da leggere volute e decorata da sobri festoni, sovrastata da due gradini ai lati del tabernacolo centrale su cui si eleva la macchinetta con quattro colonne corinzie e fastigio continuo.

L’uso di marmi bianchi e rosa dalle belle venature per tutto l’altare e l’assenza di statue contribuiscono a superare i grandiosi altari, riccamente colorati e dotati di inserti scultorei, realizzati nei decenni precedenti dal padre Giovanni Maria e dallo zio Giacomo.

Nel 1818 Antonino Amato e Michelangelo Bertuccelli realizzarono per 80 onze il distrutto Altare Maggiore della Chiesa della SS. Trinità di Monforte S. Giorgio, disegnato dall’architetto Lorenzo Lisitano[87]. Nel 1818 padre Vincenzo Lisi, corettore del Convento di S. Francesco di Paola di Monforte S. Giorgio, commissionò ai fratelli Antonio e Antonino Amato figli del defunto Giovanni, il primo scalpellino domiciliato nella marina di Messina e il secondo marmoraro domiciliato nella via Oliveto della stessa Città, lavori nella chiesa del suo convento[88].

I due artigiani avrebbero dovuto realizzare l’Altare Maggiore, i quattro altari secondari, il pavimento e una lapide commemorativa da murare sopra la porta su disegno dell’architetto Antonino Tardì[89]. I lavori furono eseguiti sotto la direzione dell’architetto Tardì e compensati con la somma complessiva di 683 onze a seguito di relazione del Tardì in data 28 novembre 1820. I marmi lavorati dovevano essere trasportati alla marina di Monforte S. Giorgio entro il settembre 1819 a spese degli Amato e poi a destinazione a cura del corettore Lisi. Il pagamento era previsto in più rate, a stati di avanzamento. Contratto e relazione indicano i diversi tipi di marmo che dovevano essere utilizzati: marmo di Genova per il pavimento, marmo nero e giallo, verde e bianco statuario per l’altare maggiore, pietra di Taormina per gli scalini degli altarini ad integrazione del materiale recuperato e adattato dall’altare maggiore, marmo bianco e lettere di piombo per l’iscrizione. Gli Amato curarono anche lo smontaggio del pavimento in terracotta e la demolizione dei vecchi altari. Per l’altare maggiore gli Amato curarono la realizzazione di decori in legno dorato (due profumiere, due cinerari, viti e spighe di grano a rilievo, candelieri, la porticina del tabernacolo, un espositore a raggi del SS. Sacramento) e un crocifisso d’argento su croce di legno. I lavori, completati nel 1820, sono ancora conservati con l’epigrafe commemorativa[90].

L’altare maggiore adotta lo stile neoclassico secondo i rigorosi dettami della scuola napoletana presso cui si era formato il Tardì. La base è scandita da quattro severi mensoloni con piccole ghirlande: al centro è posizionato il sarcofago ed ai lati sono applicate le decorazioni in legno dorato. L’elevato rinuncia alla tradizionale scalea sviluppandosi in un’alzata a riquadri con decori in legno dorato. Il tabernacolo centrale si sviluppa in un monumentale tempietto semicircolare con colonnine corinzie, concluso da una corona su sui è posizionato il crocifisso. L’architetto evita la tradizionale macchinetta e preferisce conferire una consistenza monumentale al tabernacolo, solitamente modesto. L’uso di marmi scuri, appena ravvivati da pochi inserti in marmo bianco e legno dorato, le forme strettamente geometriche e la mancanza di statue e decorazioni scolpite esuberanti segnano una svolta decisa nella produzione di altari degli Amato.

Nel 1843 Antonio Amato collocò il nuovo pavimento della Parrocchiale di Giampilieri[91], disegnato dall’architetto Giuseppe Mallandrino[92], che è stato in gran parte rimosso nel 1942.

Nel 1844 Antonio Amato fu Giovanni, domiciliato nel Teatro Marittimo di Messina, partecipò all’appalto per gli Altari di S. Giovanni Battista e S. Vittorio Angelica in Duomo[93], disegnati dall’architetto Andrea Arena[94]. L’offerta dell’Amato non fu accolta e il lavoro fu assegnato al marmoraro Antonio Rizzo che aveva offerto un ribasso poco superiore.

Nel 1853 Antonio Amato (figlio del defunto Giovanni) domiciliato nel Teatro Marittimo, ottenne l’incarico per la realizzazione degli scalini della porta laterale del Duomo dal lato della sacrestia. L’architetto Arena scrisse una relazione, perduta, sullo stato della vecchia scalinata, sugli interventi necessari e sui materiali da usare[95].

L’Antonio Amato documentato nel 1843, 1844 e 1853 era uno dei figli di Giovanni Maria Amato che aveva lavorato (dopo la prima incerta attestazione del 1808-09 a Milazzo) nei lontani anni 1818-20 col fratello Antonino ed era ancora attivo, probabilmente con ruolo dirigenziale della bottega attesa l’età di certo assai avanzata.

Nel 1858 Antonino Miloro Amato rifece il tabernacolo e l’alzata dell’Altare Maggiore della Parrochiale di Roccavaldina su disegno dell’architetto messinese Nicola Anastasi[96].

Nel 1864 una fonte giornalistica[97] riferiva che nello studio Amato alla marina lavorava un giovanissimo apprendista, Salvatore Dritto[98], già in grado di modellare bellissimi bozzetti in creta.

Nel 1865 un “A. Amato” firmò il Monumento di Carmelo Nunnari Marchese nella Parrocchiale di Giampilieri, una stele funeraria con medaglione ritratto a forte rilievo dell’estinto[99]. La stampa cittadina si occupa ancora dell’Amato nel 1865[100]: nello studio di Antonio Miloro Amato alla marina era esposto il monumentale Stemma Civico marmoreo destinato al nuovo Municipio di Barcellona Pozzo di Gotto. Si trattava chiaramente dello stesso personaggio citato l’anno prima con riferimento all’apprendista Dritto.

Il doppio cognome Miloro Amato potrebbe essere una traccia per comprendere il motivo della scomparsa della bottega Amato dopo oltre due secoli di attività: la mancanza di una discendenza maschile potreb be aver posto fine alla dinastia degli Amato. Resta tuttavia da accertare per quale motivo la bottega Miloro Amato abbia cessato il suo lavoro, forse già prima del terremoto del 1908 dato che non è citata nelle pubblicazioni commerciali dell’avanzato Ottocento e dei primi anni del Novecento.



[1] D. Novarese, Gli statuti dell’arte dei muratori, tagliapietre, scalpellini e marmorai di Messina, in «Archivio Storico Messinese», 47, 1986, pp. 75-112.

 

[2] G. Buonfiglio e Costanzo, Messina città nobilissima, Venezia 1606, pp. 24v e 33r.

 

[3] P. Samperi, Iconologia della gloriosa Vergine madre di Dio Maria protettrice di Messina, Messina 1644, pp. 491-492.

 

[4] C. D. Gallo, Annali della città di Messina Capitale del Regno di Sicilia dal giorno di sua fondazione sino a’ tempi moderni, tomo primo, Napoli 1755 Messina 1756, apparato, p. 195.

 

[5] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi (1700-1743), Messina 1981; S. Di Bella, Scalpellini, marmorari e “mazzunari” a Messina nel Seicento, in «Archivio Storico Messinese», 65, 1993, pp. 105-122.

 

[6] S. M. Calogero, Lo scultore messinese Antonino Amato a Catania, in «Archivio Storico Messinese», 94-95, 2013-2014, pp. 39-65.

 

[7] Per le opere degli Amato in Calabria: Società Messinese di Storia Patria - Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Messina e la Calabria nelle rispettive fonti documentarie dal basso Medioevo all’Età Contemporanea. Atti del 1° colloquio calabro siculo - Reggio Calabria Messina 21-23 novembre 1986, Messina 1988, passim.

 

[8] S. Di Bella, Scalpellini, marmorari e “mazzunari”..., cit., pp. 118-119.

 

[9] S. Di Bella, Scalpellini, marmorari e “mazzunari”..., cit., p. 119.

 

[10] S. Di Bella, Scalpellini, marmorari e “mazzunari”..., cit., p. 119.

 

[11] G. Policastro, Catania nel Settecento. Architettura, scultura, pittura, musica e teatri, Catania 1950, p. 11 nota 1. Il Policastro non dichiara la fonte della notizia ma è probabile che si sia trattato di una comunicazione di Domenico Puzzolo Sigillo, che ringrazia per le notizie d’archivio fornitegli sulla famiglia Amato.

 

[12] Per Giovambattista Quagliata: F. Chillemi, Profilo dell’architettura a Messina, Messina 2017 (scheda biografica di G. Molonia) p. 267.

 

[13] S. Di Bella, La chiesa di Sant’Antonio Abate di Castiglione di Sicilia, Messina 2022, pp. 24-28 e 48-49.

 

[14] S. Di Bella, Nuovi documenti su alcuni marmi delle chiese di Taormina (secc. XVII-XIX), in «Incontri Mediterranei», 11, 2005, pp. 68 e 73.

 

[15] S. M. Calogero, Lo scultore messinese Antonino Amato..., cit., pp. 39-40.

 

[16] D. Puzzolo Sigillo, L’architetto Girolamo Palazzotto (Fra’ Liberato da Messina) 1676-1754, in «Atti della R. Accademia Peloritana», XXXVI parte II, 1935, p. 596.

 

[17] Per Raffaello Margarita: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., p. 262 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[18] S. M. Calogero, Lo scultore messinese Antonino Amato..., cit., pp. 40-42.

 

[19] Per Carlos de Grunembergh: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., p. 255 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[20] Rimane ancora valido il giudizio di Maria Accascina sull’operato di queste maestranze: M. Accascina, Profilo dell’Architettura a Messina dal 1600 al 1800, Roma 1964, pp. 68-79.

 

[21] F. Susinno, Le vite de’ pittori messinesi, a cura di V. Martinelli, Firenze 1960, p. 183. Cfr.: Le Quattro Fontane, scheda di A. Migliorato, in: Frammenti e memorie dell’Ordine di Malta nel Valdemone, a cura di C. Ciolino, Messina 2008, pp. 106-109.

 

[22] Messina ed i suoi monumenti. Guida a cura del Municipio, Messina 1902, p. 304.

 

[23] G. Grosso Cacopardo, Guida per la città di Messina, Messina 1826, p. 91.

 

[24] Per Ignazio Buceti: S. Di Bella, Messina. L’Immacolata di marmo (1758), Messina 1999, pp. 13-15.

 

[25] Messina ed i suoi monumenti..., cit., p. 241.

 

[26] Monumento funebre di Fra’ Andrea Di Giovanni, scheda di V. Buda, in Frammenti e memorie..., cit., pp. 117-119.

 

[27] S. M. Calogero, Lo scultore messinese Antonino Amato..., cit., p. 58.

 

[28] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 21.

 

[29] C. Ciolino, Committenza di un’antica icona marmorea in via di Porta Real Basso, in Iconae Messanenses. Edicole votive nella città di Messina, a cura di S. Todesco e G. Anastasio, Messina 1997, pp. 187-190.

 

[30] Per Antonino Barbera: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., p. 246 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[31] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 22.

 

[32] Messina ed i suoi monumenti..., cit., p. 288.

 

[33] La Sacra Milizia dei Verdi Guardia del Corpo del SS. Sacramento a Messina dal 1000 al 2000, Messina 2005, p. 138.

 

[34] La commissione da parte dello stesso Arcivescovo (nel 1728) a1 Filocamo del monumento· Migliaccio, solitamente attribuito in letteratura ai fratelli Amato, è documentata in: Distinto ragguaglio della morte, e pompa funebre del fu illustrissimo monsignor d. Giuseppe Migliaccio Arcivescovo della nobilissima città di Messina, Messina 1729. Per l’esecuzione degli Amato: S. Bottari, Il Duomo di Messina, Messina 1929, p. 46.

 

[35] Per Paolo Filocamo: F. Hackert, G. Grano, Memorie de’ pittori messinesi, a cura di G. Molonia, Messina 2000, p. 140-142.

 

[36] G. Chillè, G. Mellusi, Le distruzioni della Cattedrale di Messina nella collezione fotografica di Arturo Papali, Messina 2017, p. 63.

 

[37] Per la commissione, priva di indicazione dello scultore: C. E. Tavilla, Per la storia delle istituzioni municipali a Messina tra Medioevo ed età moderna, tomo secondo, Messina 1983, p. 417. La commissione riguardava le statue di S. Mattia e S. Giuda Taddeo: la seconda è attribuita dalle fonti letterarie ad Ignazio Buceti, ulteriore indizio di una vicinanza e possibile collaborazione dei due artisti. Per l’attribuzione all’Amato: G. La Farina, Messina ed i suoi monumenti, Messina 1840, p. 87.

 

[38] S. Bottari, Il Duomo di Messina, cit., p. 55. Il giudizio del Bottari conferma la valutazione seccamente negativa di: G. Grosso Cacopardo, Guida per la città di Messina, cit., p. 44.

 

[39] C. La Farina, Si accennano le opere dello scultore Ignazio Brugnani, di cui si da anche un breve accenno biografico,  in C. La Farina, Intorno le Belle Arti e gli artisti fioriti in varie epoche in Messina. Ricerche ordinate in più lettere, a cura di G. Molonia, 2004, pp. 124-126.

 

[40] Per Ignazio Brugnani: C. La Farina, Si accennano le opere dello scultore Ignazio Brugnani..., cit., pp. 121-128.

 

[41] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 25.

 

[42] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 15.

 

[43] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 15.

 

[44] S. Di Bella, La chiesa di Sant’Antonio Abate..., cit., p. 24-28, 49-50 e 120-129.

 

[45] S. Di Bella, La chiesa di Sant’Antonio Abate..., cit., pp. 28, 49-50 e 129.

 

[46] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 17.

 

[47] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 17.

 

[48] I tesori di Giampilieri. La chiesa madre di San Nicola e il patrimonio figurativo del territorio (contributo sui marmorari di A. Raffa), a cura di L. Giacobbe, Messina 2011, pp. 56-57.

 

[49] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 18.

 

[50] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., pp. 19-20.

 

[51] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., pp. 21-22.

 

[52] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 23.

 

[53] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 23.

 

[54] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., p. 24.

 

[55] S. M. Calogero, Lo scultore messinese Antonino Amato..., cit., p. 42.

 

[56] S. Di Bella, I marmi della cappella dell’ospedale Piemonte in «Messina Mare. Rivista della sezione di Messina della Lega Italiana», anno II n. 5, maggio 1986, pp. 22-23.

 

[57] Per Antonino Basile: F. Chillemi, Profilo dell’ architettura..., cit., pp. 180 e 246 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[58] N. Principato, L’Ospedale Piemonte (1911-2011). Cento anni della più antica struttura ospedaliera di Messina, Messina 2012, pp. 143-160.

 

[59] E. D’Amico Del Rosso, Le piazzeforti di Milazzo e di Messina dal postassedio spagnolo alla rifondazione settecentesca. Da documenti inediti dell’Archivio di Stato di Palermo, Milazzo 2022, pp. 159-170; E. D’Amico, Mitologie milazzesi. La fontana del Mela e gli inediti documenti sulla sua rifondazione settecentesca, in Scritti in onore di Maria Pia Di Dario Guida, a cura di G. Bongiovanni, G. De Marco, M. K. Guida, Roma-Napoli 2022, pp. 283-287.

 

[60] Per Melchiorre Greco: A. Bilardo, Artisti minori e artigiani nelle chiese di Castroreale dal secolo XVIII al XX, in «Quaderni del Museo Civico di Castroreale», 1, 1995, pp. 114-115; S. Di Bella, Un’aggiunta a Paolo Greco: l’altare maggiore della chiesa di San Pancrazio a Taormina, in «Messenion d’oro», 19-20, 2009, p. 33.

 

[61] Per Scipio Manni: G. Lo Presti, Scipione Manni Pittore Napoletano a Milazzo (sec. XVIII). Alcuni documenti inediti su Scipione Manni e la sua famiglia; A. Bilardo, La Pittura dal Seicento al Novecento a Milazzo, in Milazzo. Il porto e 1’arte, a cura di F. Chillemi, Messina 2008, rispettivamente a pp. 149-159 e 118-127.

 

[62] G. Piaggia, Nuovi studj sulle memorie della città di Milazzo e nuovi principj di scienza e pratica utilità derivati da taluni di essi, Palermo, 1866, p. 434: D.O.M. // FERDINANDO IV UTRIUSQUE // SICILIAE AC HIERUSALEM REGE POTENTISSIMO // SPECTAB. MAGISTRATUM GEREN. HUJUS URBIS // D. PAULO PROTO D. JOSEPH MUSTACCIO D. STE= // PHANO ZIRILLI D. SILVESTRO LOMONACO // D. PETRO VINCENTIO PROTO SINDACO // FONS MULTIS AB HINC SAECULIS ERECTUS LA // PSU TEMPORIS BELLIQUE VICISSITUTINIBUS // DIRUTUS AC EXICVATUS SELECTIS MAR // MORIBUS ET PERENNIS DENUO // CONSTRUCTUS // ANNO DOMINI MDCCLXII.

D.M. O. // FERDINANDO IV UTRIUSQUE SICILIAE AC // HIERUSALEM REGE INVICTISSIMO // SPECTABILES MAGISTRATUM GERENTES // HUJUS URBIS D. SALVATOR MARULLO // D. VILLELMUS D’AMICO D. JOSEPH M. // LOMBARDO D. FEDERICUS LUCIFERO // ET PATTI D. PETRUS VINCENTIUS // PROTHO SINDACUS SELECTIORI STRU= // CTURA MARMORUM AC UBERIORI // AQUARUM CURSU EORUM GUBERNII // TEMPORE FONTEM HUC REFICI // CURARUNT // ANNO DOMINI 1763.

[63] S. M. Calogero, Lo scultore messinese Antonino Amato..., cit., p. 42.

 

[64] S. Di Bella, Notizie dei marmorari messinesi..., cit., pp. 23-24.

 

[65] S. Di Bella, I marmi, in Rometta. Il patrimonio storico-artistico, a cura di T. Pugliatti, Messina 1989, pp. 114-116 e 125.

 

[66] G. Ardizzone Gullo, Guida ragionata al patrimonio storico-artistico di Manforte San Giorgio, Messina 2002, pp. 68-69.

 

[67] S. Di Bella, I marmi, cit., p. 127.

 

[68] S. Di Bella, I marmi, cit., pp. 116-11 9 e 126-127.

 

[69] F. Biviano, Presente e passato di Gualtieri Sicaminò. Il cammino di una comunità peloritana dalle origini ai nostri giorni, Pace del Mela 2012, p. 36.

 

[70] N. Lo Castro, A. Pettineo, La major ecclesia di Mistretta. Valori di Architettura, espressioni d’Arte, Palermo 2019, pp. 117 e 256-257.

 

[71] G. Fuduli, Il Promontorio di Milazzo. Il Territorio, la Saga di una famiglia, la Fondazione Lucifero, Milazzo 2016, pp. 45-47.

 

[72] Diario dell’Assedio di Milazzo redatto dal capitano Bona ingegnere militare del reggimento Fucilieri dell’esercito di Vittorio Amedeo II (24 settembre 1718-2 giugno 1719), a cura di M. Tricamo, Milazzo 2021: a p. 17 il dettaglio della pianta realizzata dall’ingegnere Gabriele Montani evidenzia l’estensione raggiunta dal palazzo Baele nel contesto della Terra Nuova già nel 1718; D. Barca, Sotto assedio. Cronaca delle vicende belliche che tormentarono Milazzo nel 1718-19 (da un coevo manoscritto inedito), a cura di G. Lo Presti e M. Tricamo, Milazzo, 2019: a p. 487 il particolare della veduta della Città, dell’ ingegnere Montani, conferma l’imponenza del palazzo Baele anche in elevato.

 

[73] D. Barca, Sotto assedio..., cit., p. 174.

 

[74] D. Barca, Sotto assedio..., cit., p. 184.

 

[75] I primi lavori di restauro della porzione sopravvissuta del Palazzo furono eseguiti negli anni 1945-46: il geometra Carmelo Formica presentò il 20 febbraio 1945, su incarico dell’erede signora Dora Marullo, al Genio Civile di Messina una perizia per ottenere il risarcimento dei danni di guerra. Cfr. Archivio di Stato di Messina, Fondo Genio Civile, Perizie, Busta 185, fascicolo 9284. La ricostruzione definitiva, su progetto dell’ingegnere Cesare Fulci, iniziò soltanto nel 1952: il 12 settembre 1952 il marchese Stefano Proto inoltrò al comune di Milazzo una relazione in cui l’ingegnere Fulci illustrava il suo progetto, fornendo delucidazioni sulle modifiche alle decorazioni dei balconi. Il cambiamento più importante fu tuttavia la sostituzione del grande portone neoclassico, ormai distrutto, con un ingresso a due colonne più sobrio e adeguato al disegno del prospetto. Con lo stesso criterio si modificò il grande balcone neoclassico centrale, riequilibrando l’assetto della facciata ricostruita.

 

[76] I lavori di rifacimento del portone principale furono affidati ai mastri falegnami e muratori messinesi Antonino Oteri, Giovanni Di Blasi e Antonio Amato fu Giovanni. Il Fondo Archivistico Marchesi Proto conserva la relazione del progettista e il computo delle spese. Mastro Antonio Amato (falegname o muratore?) probabilmente si identifica con Antonio Amato fu Giovanni Maria, marmoraro attivo nella prima metà dell’Ottocento.

 

[77] I testi delle epigrafi sono pubblicati in: G. Piaggia, Nuovi studj sulle memorie della città di Milazzo..., cit., p. 436.

 

[78] S. Di Bella, I marmi, in Rometta, il patrimonio storico-artistico, cit., p. 120 nota 40.

 

[79] G. Pandolfo, Artisti e artigiani nelle chiese di Roccavaldina dal secolo XVI al secolo XIX, in «Munt Dafurt. Bollettino di studi storici sull’area Peloritana del Valdemone», Monforte S. Giorgio 2014, pp. 45-46.

 

[80] I tesori di Giampilieri..., cit., pp. 69-79.

 

[81] I tesori di Giampilieri..., cit., pp. 243-246.

 

[82] Per Giovanni Francesco Arena: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., p. 246 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[83] D. Puzzolo, Poesia e verità riguardanti Messina nel “ Viaggio in Italia” di W. Goethe, in «Archivio Storico Messinese», terza serie, vol. I, 1949, pp. 129-130.

 

[84] Per Francesco Saverio Basile: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., pp. 246-247 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[85] Per Letterio Costa: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., pp. 127, 190 e 212.

 

[86] A. Sparacino Fiumara, Notizie storico-religiose del villaggio Contesse dal 1600 al presente anno 1946-47, Messina 1947, pp. 34-38.

 

[87] G. Ardizzone Gullo, Guida ragionata al patrimonio storico - artistico di Manforte San Giorgio, cit., p. 107.

 

[88] A. Seminara, G. Ardizzone Gullo, La chiesa di San Francesco di Paola a Monforte. Un contratto di ristrutturazione, in «Munt Dafurt. Bollettino di studi storici sull’area peloritana del Valdemone», Monforte S. Giorgio, 1989, pp. 67-80.

 

[89] Per Antonino Tardì: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., p. 270 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[90] G. Ardizzone Gullo, Guida ragionata al patrimonio storico-artistico di Manforte San Giorgio, cit., pp. 114-115. L’iscrizione recita: D.O.M. // RESTAURATUM HOC TEMPLUM // ET MARMOREIS ARIS ET PAVIMENTO ORNATUM // F. VINCENTIUS LISI // LECTOR ET CONVENTUS CORRECTOR // A SUO CONCIVE // IL.MO ET R.MO D.NO IACOPO CACCIA // EPISCOPO ANTINOE ET S. LUCIAE PRAESULE // SOLEMNI RITU CONSACRARI CURAVIT // DIE XV APRIL. A. MDCCCXX.

 

[91] I tesori di Giampilieri..., cit., p. 42.

 

[92]  Per Giuseppe Mallandrino: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., p. 260 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[93] G. Chillè, Interventi e restauri. Aggiunte e nuove riflessioni sul Duomo di Messina attraverso documenti inediti di un archivio privato, in «Archivio Storico Messinese», 84-85, 2003-2004, pp. 268-270 e 298-300.

 

[94] Per Andrea Arena: F. Chillemi, Profilo dell’architettura..., cit., p. 246 (scheda biografica di G. Molonia).

 

[95] G. Chillè, Interventi e restauri. Aggiunte e nuove riflessioni sul Duomo di Messina..., cit., pp. 280-283 e 331-333.

 

[96] G. Pandolfo, Artisti e artigiani nelle chiese di Roccavaldina..., cit., p. 53. Ringrazio il dr. Giuseppe Pandolfo per le informazioni e le foto dell’altare.

 

[97] «Politica e Commercio. Giornale di Messina» del 24 maggio 1864.

 

[98] Salvatore Dritto potrebbe identificarsi con Salvatore Pagano Dritto, personaggio del mondo artistico e artigianale tra fine Ottocento e inizi Novecento di cui non restano molte notizie. Nel 1882 Pagano Dritto, ormai adulto, partecipò all’Esposizione Artistica e Industriale di Messina esponendo il disegno a matita di una Madonna con la sua cornice e il disegno a pastello di un vaso etrusco completo di cornice (cfr. Concorso Agrario Regionale ed Esposizione Artistica Industriale Didattica di Messina dal 12 agosto al 20 settembre 1882. Catalogo ufficiale pubblicato per cura della Commissione Ordinatrice, Messina 1882, pp. 98 n. 228 e 112 n. 227). La stampa riferisce anche dell’esposizione di una cornice in noce decorata, forse da identificare con una di quelle dei disegni ricordati nel catalogo. Cfr. «Politica e Commercio. Giornale di Messina» del 4 settembre 1882. Intorno al 1904 Pagano Dritto realizzò per la sacrestia del Duomo una cornice circolare in pietra di Siracusa, scolpita a tralci di vite, imitando la decorazione della porta principale della sacrestia: il lavoro servì per incorniciare l’affresco seicentesco (ancora conservato con la cornice) della Madonna della Lettera, staccato dall’abside centrale. Probabilmente Pagano Dritto scolpì anche il portalino decorato a tralci di vite sotto l’affresco. Cfr. G. La Corte Cailler, Lavori al Duomo, in «Archivio Storico Messinese», V, 1904, p. 176; F. Malaspina, La Cattedrale di Messina nelle vicende della Città e nella spiritualità del Popolo, Messina 2008, p. 262. Le poche informazioni disponibili fanno pensare ad un raffinato artigiano orientato verso il colto eclettismo del tempo.

 

[99] I tesori di Giampilieri..., cit., pp. 165-166.

 

[100] «Gazzetta di Messina. Giornale politico quotidiano» del 16 gennaio 1865. Le notizie di fonte giornalistica (note 97, 98 e 100) sono state gentilmente comunicate dal dottor Giuseppe Quartarone, che si ringrazia. Lo stemma è murato sulla facciata del nuovo palazzo municipale: G. Pantano, Giuseppe Cavallaro e la nuova città di Barcellona Pozzo di Gotto, Terme Vigliatore 2015, p. 93.

 

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